lunedì 3 ottobre 2016

Solo uno spizzico

Si vedevano al parcheggio di un grande autogrill sulla tangenziale da un tempo non proprio brevissimo.
Lui faceva il cuoco allo Spizzico. O meglio, scongelava pizze allo Spizzico e le metteva nel forno fino al suono del campanello, che indicava che la pizza aveva raggiunto la giusta fragranza.
Lei non andava mai a mangiare in quello Spizzico.
O meglio, a volte ci andava per osservarlo armeggiare con pizze e fritti, ma sempre fingendo di non conoscerlo: non potevano essere visti insieme.
Lui protestava, che non voleva essere visto col grembiule rosso e le mani puzzolenti di olio di scadente qualità.
Ma la puzza di olio mica si vede, ribatteva lei, mentre il grembiule rosso ti dona.
Fa uguale, diceva lui tutto seccato.
A lei invece piaceva vederlo con il suo grembiule rosso, le faceva tenerezza, e anche nell’odore delle cose che faceva, soprattutto quando aggiungeva un quid alle pizze: un fiore di zucca impanato, dei funghi porcini, delle erbe aromatiche che lei gli portava quando s’incontravano nel parcheggio.
Così non ti sembrerà di fare una cosa sempre uguale, diceva.
E lui ribadiva sempre che era proibito creare una qualsiasi cosa allo Spizzico, il menù dello Spizzico è come la vita, va seguita alla lettera, senza inutili deviazioni, senza opere di proselitismo all’originalità, adattandosi.
Ma poi in realtà ogni tanto lasciava cadere qualcosa sulle pizze, soprattutto quelle da asporto, così i clienti non sarebbero tornati indietro a protestare per quella deviazione.
Se hai così paura di deviare, che ci fai qui?
Qui non ci vede nessuno, ribadiva lui.
E quella cosa, del non essere visti, sembrava essere la più importante in assoluto.
Si mettevano in fondo al parcheggio, in un angolo mai frequentato da nessuno, forse perché era vicino a un fitto bosco che evocava paure ancestrali, o forse perché chi si ferma in Autogrill vuole solo mangiare e andare in bagno, perciò si mantiene il più vicino possibile al suo obiettivo.
Lì qualche volta facevano l’amore, male, incastrandosi tra i sedili, mettendo un parasole sul vetro, dicendosi qualche solita bugia. Altre volte parlavano cinque minuti.
Poi lui doveva andare, doveva tornare dalle pizze surgelate.
Qualche volta potresti portarmela una pizza.
Ma lui non le portava mai niente. Per qualche motivo, aveva deciso che non avrebbe mai fatto nulla per lei. Forse perché, se inizi a dare qualcosa, poi ti leghi a quel dare, diventa un gesto consueto, si annida nei circuiti della memoria, diventa un arco riflesso, non ci puoi fare niente, il braccio si allunga, una pizza oggi e una domani, si fa presto, non ci si accorge, che qualcuno prenda ciò che si ha da dare diventa più importante del prendere, e poi la pizza dovrà essere più buona, già, sempre e sempre di più: non basteranno più i fiori di zucca, forse serviranno anche i fiori di pesco e quelli d’arancio, mentre la vita è un menù fisso dello Spizzico.
Lei aspettava ogni giorno da tanto tempo quel trancio di pizza. O almeno una crocchetta di patate.
In realtà era un’attesa un po’ sgualcita, simile alla scarpe vecchie, che crollano da un lato.
Un giorno potremmo uscire da questo parcheggio, potrei venirti a prendere e potremmo andare a vedere un tramonto, un’alba, o magari a mangiare un dolce in pasticceria. Oppure andare sulle scale mobili di un ipermercato, dopo aver comprato dei biscotti con l’olio di palma.
No, diceva lui: noi siamo quelli del parcheggio.
E cosa siamo noi?
Niente, quelli del parcheggio.
E forse a quel punto le dava un bacio mal dato.
Se non tornassi mai più, ti dispiacerebbe?
Sì, mi dispiacerebbe molto.
E allora perché?
Devo andare.

Il mondo le sembrava tutto bellissimo, da quando amava così male in un parcheggio.
Aveva un fascino decadente anche la periferia, guarda quelle ciminiere, gli diceva mentre lui non c’era e gli nominava le cose come a un bambino che non ha mai visto niente, perché non sapeva immaginarselo fuori dal parcheggio, senza il grembiule rosso e il cappellino dello Spizzico sulla testa. E così diceva ponte, cormorano, papera, Ikea, Mercatone Uno, come fossero stati sonetti d’amore.
Collezionava oggetti alla rinfusa: libri, penne, matite, vecchi giradischi. Come una marziana, per fargli conoscere da dove veniva e invogliarlo a visitare anche lui quel luogo magnifico.
Gli faceva sentire le canzoni.
Gli portava il suo cane, tutto scodinzolante.
Il suo cane gli leccava la faccia e impazziva di gioia quando lo vedeva.
Perché è uguale a te, le diceva un poco sprezzante.
Metteva degli oggetti, tra sé e lui, come per edificare una via d’uscita dal parcheggio, come le briciole di Pollicino.
Con una bottiglia di sabbia, gli diceva senza dirlo “vieni al mare”.
Con un caffè, gli indicava la via di un risveglio.
Con un sombrero, il sogno di un viaggio lontano.
Con un libro, il calore di due poltrone affrontate, in cui ciascuno legge in silenzio qualcosa.
Poi andava a mangiare la pizza in uno Spizzico vicino a casa, che le sembrava irrimediabilmente meno bello, manchevole in qualcosa, a suo modo anonimo e sverniciato di ogni emozione.
Si mangiava il gusto della pizza che non le portava.
Guardava al di là dei grembiuli, sperava di trovare qualcosa, una sagoma altrettanto bella, magari somigliante e che volesse andar via dal parcheggio insieme a lei. Ma erano sagome anonime, non ridevano come rideva lui, non erano infelici nello stesso modo, di chi attende con una certa speranza sbiadita, non avevano la sua bellezza inquinata da una punta inquietante, spigolosa, non avevano neanche quella sua crudeltà ammansita e dosata, erano semplicemente gentili o scortesi, felici o infelici, belli o brutti. Non avevano nulla da cui essere riscattati: facevano le pizze senza origano e senza olive e non battevano ciglio. Nessun impercettibile segno di protesta. Nessun fiore di zucca messo di nascosto nei cartoni d’asporti. Nessuna parabola verso l’incanto.

Nel parcheggio cambiavano anche le stagioni.
Si faceva presto a passare da un freddo da morire a un caldo da morire.
Ti ho portato una spezia indiana.
Grazie.
E un peperone essiccato.
Grazie. E poi?
E un cappellino giallo.
Ma non posso mettermi un cappellino giallo. Il cappellino dello Spizzico è rosso.
Tu prendilo comunque, non si sa mai. Se non ci vedremo più, magari tra quarant’anni lo Spizzico avrà liberalizzato i cappellini e io, che avrò allora un’immagine un po’ sbiadita di te, ti riconoscerò perché questo cappellino non lo avrà nessun altro. È personalizzato.
Allora va bene. Ma noi ci vedremo sempre.
Davvero?
Davvero. Ciao.
Ciao.

Neve e sole. E mezze stagioni.

Ehi!
Che c’è?
Una volta mi abbracci?
In che senso?
Un abbraccio vero, nel senso che mi stringi forte, come dire “mi dispiace che vai via”
Se non lo sento, perché dovrei farlo?
Potresti sentirlo, dopo tutto.
Ah, forse potrei. Ci vediamo domani, eh!

Hanno smontato il cartello dello Spizzico.
Portano via la S per prima. E poi la I, senza un criterio ben preciso.
C’è uno strano odore, come se una grande pizza universale si fosse sciolta d’improvviso e d’improvviso colasse sul mondo fiotti di formaggio appiccicoso e scadente.
Il cielo è nuvoloso, potrebbe essere inverno, oppure estate.
Il parcheggio sembra un grande organismo esanime.
I muratori distruggono il bancone.
Qualcuno getta via i lasciti dei pizzaioli: una scatola con qualche spezia indiana, un libro, un cappellino giallo.
Non lo riconoscerà, pensa, se dovesse vederlo in un altro Spizzico, tra quarant’anni.
Non sa immaginarlo altrove. Anzi, forse è andato via con una lettera dell’insegna, tutt’insieme d’improvviso, senza lasciar traccia.
E poi vanno via i grembiuli rossi.
Su uno soltanto è rimasta una macchia.
Anzi, un bacio. Color ciclamino.
Non fosse per quello, potrebbe non esser mai esistito.
Mai come ora è felice di esser tornata indietro e di averlo, quel giorno, ancora una volta malamente baciato.

1 commento:

  1. Finalmente. Letteratura. Generosa, pura, della grandezza che parta dal polso ricurvo sul foglio e arrivi al respiro delle stelle. Trovata. Finalmente. Grazie.

    M.

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