martedì 23 settembre 2014

...

Vorrei strapparti al tempo
alla realtà ai gesti
non perché tu abbia di meno
o per averti io di più 
nè per lasciarti solo
dipinto fulgente sulla volta di un chiostro
per seguirti in impronte affannate
su un deserto bianco
o farti cadere in provetta
- tu che sei piuma -
come metallo invece denso.

Lo vorrei perché così soltanto
si va nei luoghi che abbiamo sospeso
intrecciandoci i capelli
nelle parole che abbiamo sbocciato
baciandoci le labbra
nei silenzi che abbiamo espanso
scambiandoci la punta delle dita

Ché quando ti alzi e vai
-guarda- luoghi parole silenzi 
rimangono lì
impigliati alla sabbia
son tutti i nostri orfani
omini di sale e vento
stereotipie di un manichino ingessato
che gioca all'amore
sillabando muto qualche nome vuoto
che dicon tutti:
rosa cuore spine rosso...

E io non voglio che crescano 
in quell'orfanotrofio degli amori qualsiasi 
gli orfani del nostro amore.

Li voglio lavare vestire curare 
e di notte oscillarli in una fiaba
di quelle in cui si muore prima e si nasce poi
e non si dice rosa cuore spine rosso
e non felici e contenti
ma si combatte con leoni blu
in sella a zebre senza strisce
nè si sposano la principessa e il principe 
ma siedono su due monti affrontati
passandosi la luna e il sole
come palle da tennis.

Così vorrei.

Ma se non posso strapparti al tempo
alla realtà ai gesti
lascia che almeno ti strappi
a questa poesia
che raccolga i nostri orfani di vento
qualche rosa e qualche spina
per ammansire il leone blu
e dipingere strisce rosse sulla zebra senza strisce
e, dopo aver distribuito a tutti
 un po' di cuori qualsiasi,
chiuderli nel sogno a colori 
dei felici e contenti. 
Fino a domattina.


1 commento:

  1. "... in una fiaba
    di quelle in cui si muore prima e si nasce poi
    "

    Questo è un verso azzeccatissimo.

    Mi spinge a questa riflessione, che ti giro:
    ma quando si "finisce" di nascere?
    anzi, si può mai veramente "finire" di nascere?
    Quando diciamo di noi stessi di "esser nati" (al passato) non diamo per scontato qualcosa che non lo è affatto?

    Non lo è, in un duplice senso:
    sul piano fenomenologico, dell'osservazione, nessuno può "assistere" conoscitivamente alla propria nascita;
    sul piano ontologico (dell'essere, della realtà effettiva) presupponiamo - dicendo "sono nato" - che vi sia già un soggetto, un io, già costituito... la cui "natura" (giocando sulla radice latina di "natura" cioè "nascor" appunto) sia già stata determinata (sia già "nata").

    Ma come potrei sapere CHE qualcuno (il mio "io") è nato, se non so CHI sia colui ("io") di cui si dice che sia nato?
    E che cosa è la nostra "coscienza", il nostro saperci esistenti, se non un trascendere ogni nostro stato e condizione, cioè idealmente un "morire" ogni istante, per rinascere diversi eppur identici?

    Concludo riportandoti una frase splendida di un grande pensatore poco conosciuto:
    "La «profondità» che l'uomo crede di trovare nel ripiegarsi e nel contemplarsi è il rischio dell'equivoco nel pensare umano: se l'uomo è in quanto «tende», non in se stesso egli si trova, ma nel non trovarsi" (G. R. Bacchin, Su l'autentico nel filosofare).

    Ciao,
    Marco

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