venerdì 20 marzo 2015

Mio padre



Mio padre ha i capelli bianchi, un po' di barba ed è da sempre in sovrappeso. Mangia troppo e cammina troppo poco.
Ha gli occhi chiari ed è di poche parole. 
Gli piace una vecchia poltrona di vimini che, da quando me lo posso ricordare, è davanti alla finestra del soggiorno, in ombra alla tenda: lì si isola dentro qualche libro di viaggi e avventure lontane.
Queste sono le sue letture, quando non specula di formule matematiche che scrive sui vetri appannati, cercando di spiegare l'universo mentre -inesorabilmente- invecchia.
Mio padre è un uomo buono, dal grande cuore, un po' anacronistico. E poi basta un niente e si preoccupa, senza mai proferir parola.
M'intercetta sempre l'umore sull'uscio di casa.
Non fa domande, ma se mi vede con l'occhio un po' convesso -come oggi-, si alza dalla poltrona, sembra un elefante mastodontico e si nota che ci mette tutto il suo impegno per essere scattante -e non ci riesce-, poi mi abbraccia con le sue braccia possenti come i rami di un albero e mi dice:
"Bambina mia, non te la prendere, è l'entropia"
Allora io gli chiedo come si può conservare qualcosa in un mondo dove comanda l'entropia e lui risponde:
"Lasciami studiare ancora un po', ti prometto che troverò una formula", e si nasconde dietro gli occhiali un po' scuri, arrossendo tutto imbarazzato perché la soluzione non ce l'ha, ma in compenso ha gli occhi convessi pure lui, adesso.
Allora gli ricordo che Freud l'entropia la chiamava "istinto di morte" e lui fa spallucce e mi dice: "Va bene Freud ma, se ti riesce, tu sposa un poeta, uno che fa sintesi e non fa analisi". 
Mi sembra un ottimo consiglio.
Mio padre, quando non mangio se ne accorge e tace, e mi lascia un panino dietro la porta di camera mia, tagliato un po' storto e pieno di salse che non mi piacciono, però è troppo buono il pensiero per non mangiarlo lo stesso e non scoccargli un bacio sulla testa stempiata, mentre sonnecchia sulla poltrona.
Mio padre sa sempre se mi sto cacciando nei guai, non lo dice ma mi richiama indietro mentre esco di casa con una valigia sospetta:
"Non si provoca l'entropia!", mi echeggia dalla poltrona, con la coda dell'occhio, la voce inclinata, un implicito allusivo rimprovero.
Allora io gli chiedo dove posso mettere tutte le cose incantate che ho nascosto nella valigia e a quel punto è un po' contento di potermi dire:
"D'accordo l'entropia, ma nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, quindi non è da buttare, bambina mia, è solo da trasformare in qualcosa di meglio".
Mio padre mi controlla la pressione delle gomme e l'olio della macchina ogni mattina, mentre finge di andare a comprare il giornale.
E ogni tanto, quando non mi ama nessuno, mi fa trovare un mazzo di fiori sul tavolo dell'ingresso e dice:
"Ma chi sarà questo ammiratore segreto?", pensando che basti scrivere in stampatello per non essere riconosciuto e provocarmi un'illusione d'amore.
Mio padre non chiama per sapere dove sono, ma mi aspetta sempre affacciato alla finestra e finge di essersi addormentato sul divano, perché il sabato c'è un programma lunghissimo alla televisione, che "non finisce proprio mai" (ma non ha mai svelato quale) e io fingo di crederci dai tempi della mia adolescenza.
Mio padre ha una bella saggezza, una serena vecchiaia, un coraggio discreto.
È chiaro, è bello, non grasso ma morbido, ha gli occhi limpidi. E, quando si arrabbia, diventa rosso come un peperone ma non spaventa nessuno.
Oggi non se la prende se ho scordato di fargli gli auguri per la festa del papà.
"Passa tutto, bambina mia, passa tutto", dice scuotendo le mani davanti al torace, sapendo che ho la testa piena di problemi che non si risolvono. 
Mio padre c'è e così mi è più facile perdonare tutto quello che non c'è. 

Mio padre sfuma via dalla poltrona, lascia qualche formula sul vetro. 
Mio padre non esiste. O, forse, è una questione di entropia.

5 commenti:

  1. Non esiste parola per rispondere, esistono delle emozioni, ma non credo sia possibile scriverle. Qui.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Buona domenica, caro Lettore ;)

      Elimina
    2. Ho trovato queste righe su un blog. Te le mostro. A me sono piaciute. Sapessi scrivere. Un saluto.
      A volte mi fermo semplicemente perché il disordine ha prevaricato la ragione e tutto sembra. E quelle volte penso che essere fermi senza stringere la mano ad alcuno ti porti a cercare in alto la via della strada sperando di vedere il nome di tuo padre. Ed invece no. C’è sempre quel politico o statista di cui anche il nome è un parlare. E tu pensi a quelle parole che ti sono rimaste nel cuore perché quel giorno l’hai guardato aspettandoti una domanda e lui, invece, nel passare ti ha allungato una banconota per il tuo divertimento. Ma lui non lo sapeva che fuori nessuno ti stava aspettando e che con la banconota invece avresti iniziato a fumare. A volte mi fermo semplicemente perché non ho motivo di andare avanti. E quelle volte mi volgo, quasi per noia, a rimirare indietro. E nel vedermi solo sul vetro della vetrina del solito negozio di abbigliamento, trapasso con lo sguardo questo e così fisso i manichini scorgendo somiglianze con chi ho frequentato. Così anche mi rispondo perché io sia sempre fuori e loro dentro in questi negozi che ti insegnano ad apparire. A volte mi fermo semplicemente perché ho sentito una parola ed ho perso quella dopo. E non mi giro ma cerco con l’udito tra i suoni del momento cercando di capire la parola ancora dopo. E penso a quando mi sono accorto di non sentire più il mio nome da alcuno come se fosse caduto in disuso. Quel silenzio è stato duro da accettare. A volte mi fermo semplicemente perché sento dire il mio nome. Ma non mi giro perché non sento la tua voce.

      Elimina