martedì 18 maggio 2010

Shadow city

Salgo ad una ad una le scale, carezzando i muri, che non hanno perso, tuttavia, il loro candore, anche se al minimo sospiro paiono sfaldarsi.
Il grande salone ha i pavimenti in legno d'ebano. E' rettangolare più d'ogni rettangolo archetipico, il soffitto a cassettoni di mogano. Sulla parete sud, rivolta verso l'oceano, è incassato un camino bianco in muratura. Sulla parete nord, simmetricamente al camino, avevo fatto disegnare la sagoma eterea di un orologio a muro: quell'orologio si è fermato alle ore 5,37 di tredici mercoledì fa.

D'allora più nulla, qua, s'è mosso, neanche la terra, che tanto aveva tremato.

Non oso dirlo a lei che, seduta a gambe incrociate al centro del salone, su un grande cuscino rosso porpora, bello imbottito, mi attende. Anche lei pare non essersi mai più mossa. Appare incerata nel silenzio fatiscente del municipio diroccato e senza finestre, sfiorato appena dal muggito dell'oceano croceo, che solitario respira, come il ricordo di un'esistenza lontana. Non oso dirle che, falcidiato dal sopore della città che dorme, mi trovo a ricercare la vita nel medesimo tremore che l'ha distrutta, perché esso è stata l'ultima presenza, l'ultimo specchio del divenire sulla nostra terra.

La scacchiera è lì, al centro, incoronata dai cuscini color porpora, integrità tra frammenti di carta e cristallo.
Avremo luce finché ci sarà il sole.

Proprio lì, tredici mercoledì fa c'era un lungo tavolo di cristallo con un grande plastico della nostra città: la chiamavano White City, perché non aveva un elemento che non fosse bianco contro l'oceano, niente di così tangibile, materiale, aggressivo da trattenere un colore.
Ogni cosa a White City era predisposta per colorarsi secondo l'incidenza della luce: ne ricordo i profili aranciati, quando l'osservavo al tramonto da Corn Hill, le lugubri tinte violacee quando il cielo era plumbeo e consistente come un'essenza fantasmatica, nei giorni di temporale estivo, le voluttuose trasparenze dell'alba, quando il divenire enigmatico del giorno sui flutti dell'oceano annientava la materia e la scioglieva: allora l'intonaco delle case, chiuse nel loro anfratto di costa limitato da due scogliere simmetriche colonizzate di leoni marini, pareva liquefarsi ed evaporare sopra i comignoli. Non si poteva chiamare nebbia, quella evaporazione, perché non nascondeva le cose, bensì le restituiva di un'altra natura, eterea, spirituale, di un altro mondo.
Lei dice che l'alba s'è conservata della medesima consistenza e che all'alba la città continua a non esserci, adesso come allora.
Dice che, adesso come allora, si scarcera e si eleva. I pruni e i mirti, sulle colline, la fanno veleggiare sulle loro esalazioni, ogni cosa, dalla pietra, al leone di mare, alla sabbia dell'oceano, al granello d'asfalto diventa un respiro collettivo, un grande e regale spettro.

Ma lei è fatta così. Dice tante cose. Le dimentica. Le nega. Le riafferma.

Mi siedo di fronte a lei.
Le sue pedine sono quei pezzi che il grande plastico, frantumandosi, ha abortito. Sono i suoi pezzi bianchi: li riserva a se stessa, come un incontrastato simbolo del Bene.
Oggi è il primo mercoledì in cui il cielo pare un po' meno scuro e impregnato dalla fuliggine.
“Sei in ritardo.”, mi sussurra con aria grave.
Ma so che non si riferisce a questa sera. So che mi rimprovera di non esserci stato, l'alba di tredici mercoledì fa. So che me lo rimprovererà sempre, per quella sua attitudine, che ha conservato dall'infanzia, a considerare l'assenza una forza tragica e dirompente, in grado di distruggere le cose. So anche che, nell'intimo dei suoi sogni, mi ritiene responsabile della catastrofe.
Si tiene appigliata alle sue pedine bianche con una caparbia speranza. Vuole che sia io a ricostruire la città bianca che non c'è più.
“Sei l'architetto migliore del mondo”, mi dice anche oggi, per ricordarmi il perché di quella convocazione.

Il nostro gioco è in realtà, sempre lo stesso. Si ripete, nel silenzio surreale.
Da tredici mercoledì non vediamo la pioggia. Le nostre nubi sono state solo nubi di fuliggine.
“Hai visto?”, mi dice, mentre mi indica delle nuvole gravi, spesse, che dall'orizzonte incedono sul mare e, trafitte da una coltre radente di luce, si fanno d'un grigio luminescente, quasi aureo.
Lei non è più la donna che era. Gli occhi sono una patina spenta e le mani non hanno mai smesso di tremare da allora. Ogni tratto di lei sembra ancorato a trattenere qualcosa della catastrofe, come un'estrema difesa contro il nulla. Ogni espressione in lei è una lapide che vuole conservare, incensare, adorare.
Sembra aver perso qualsiasi forma di fascinazione per le cose vive ed essersi votata ad un assurdo culto dell'assenza.

E così non posso che attendere questo nostro mercoledì.
Il resto della settimana è come una massa di tempo virtuale e contratto, che non ritiene all'altezza di essere vissuto. E' solo il tramite per ogni mercoledì successivo, per la celebrazione maniacale del lutto totalizzante, informe, spettrale. Il resto della settimana non mi è dato di vederla. Non so dove vada né cosa faccia. So per certo che tutta la sua mente è tesa alla ricostruzione. Ricordare, ricordare, ricordare, questo è il suo imperativo.
Ogni mercoledì vuole essere certa di aggiungere qualcosa, foss'anche un piccolo dettaglio della vita della città bianca che non c'è più: può essere un decoro sulla parete della scuola, un dipinto del museo, la particolare forma di una mensola della libreria comunale, un'aiuola di fiori rampicanti appesa alla testa di un lampione. Può essere un riflesso della pavimentazione del lungomare, che interamente era stato impregnato delle conchiglie a colori cangianti del nostro oceano. Può essere la pianta rampicante che s'intrecciava lungo le pareti della lanterna e sorbiva i flutti della scogliera.
Lo aggiunge lì, sugli elementi del plastico. Ha acquistato dei colori fini, per restituire all'anonimato delle case in miniatura la loro anima.

E' in grado di utilizzare alla perfezione lo spazio esiguo della scacchiera e ogni mercoledì, quando il sole, tramontando, ci lascia nell'oscurità, la città bianca riluce ordinata sul pavimento, come un fantasma. Ci allontaniamo in silenzio, lei talora cammina in punta di piedi, quasi non volesse svegliare il suo feticcio e io ho davvero l'impressione che lo metta a dormire dentro di sé. Dopo aver completato questo rito, qualcosa in lei si placa, la tensione dei muscoli si allenta, lo sguardo allucinato si spegne. Anch'io posso sparire, dileguarmi nelle strade nere, come se non fossi mai esistito.
E io so che non mi chiede davvero di ricostruire la città, ma di essere un testimone della sua assenza, un sacerdote che benedice all'infinito un'estrema chiusura e rende inesauribile la funzione.
Ecco perché ho le pedine nere.

“La nostra nuova città si chiamerà Shadow City”, ha deciso.

Certo, Shadow City, la città ombra: ho tanti pedoni neri, amorfi, quanti sono gli edifici bianchi che lei con precisione decora. Per ogni suo posizionamento bianco, deve essercene uno mio nero. Per ogni elemento, proprio come in una città reale, deve esistere un'ombra, un alter ego, una controparte immateriale.

Ora che la materia bianca si è sgretolata ed è diventata spirito, vuole che il nero sia la nuova pietra. Nera dev'essere la città, neri devono essere i muri, i marciapiedi, le case, i belvedere. E devono sorgere proprio laddove una volta si allungavano le ombre degli edifici della città bianca, come un monito perpetuo al ricordo. Shadow City ha già in sé tutta una vocazione a non esistere, a sbiadirsi, a vivere della luce riflessa di ciò che è stato e non sarà mai più.
Questa è l'unica condizione che mi ha posto.
Prima di ricostruire, però, vuole essere certa di aver ricordato tutto, ma proprio tutto di White City, cosicché io possa studiare l'esatto profilo delle ombre e non commettere errori.

“Come stai?”, le chiedo, sfiorandole la mano.
“Aah...”, mi risponde.
Non sta in nessun modo, non vuole sapere come sta, è solo un contenitore senza fondo di luoghi passati.
Mi ricordo di un ritratto che le aveva fatto un artista sul belvedere, quando aveva quindici anni: l'aveva disegnata col viso avvolto da un velo trasparente. Lei gli aveva chiesto stupita il perché e il ragazzo, un ragazzo che allora ci sembrava grandissimo e che non posso fare a meno di ricordare con indosso una giacca di velluto marrone e una testa di riccioli castani, aveva risposto: “Perché per adesso non sei ancora nata. Quando sarai cresciuta, il tuo viso sarà definito, senza velo. Ora puoi essere qualsiasi cosa.” Lei se n'era andata non molto contenta di essere stata avvolta in quei confini nebulosi ed io, mi ricordo, invece, l'avevo invidiata tantissimo: quel ritratto mi pareva l'assegnazione di una libertà sconfinata di essere e di esistere. Era qualcosa di simile al mio concetto di bellezza, che tuttavia non avevo ancora formulato in modo razionale dentro di me. Eppure ne ero già fatalmente affascinato, proprio come ero affascinato dalla coltre di luce che all'alba faceva sparire White City e dai riflessi cangianti che il bianco catturava. Bianco era il velo, bianca la mia città, bianco, etereo il volto di lei. Bianco era tutto ciò che amavo.

Osservandola mi sembra che abbia indossato di nuovo quel velo. Che lo indosserà per sempre. Che qualcosa di splendidamente regressivo e primordiale l'abbia rapita e che esista come un essere di un'altra qualità, straordinariamente non individuale. So che lei non ci sarà mai più, perché ormai è ovunque, proprio come ci immaginiamo che sia la morte, un essere sempre, ovunque. Ma per qualche strano motivo questo sentore mi rende quieto e sicuro.
“Oggi non tocca a me il nero”, le dico, conoscendo già la risposta.
“Le tengo, io”, mi dice, “perché nulla deve essere ricostruito sulle fondamenta.”.
Sa che, se avessi in mano i pezzi fantasma, non saprei trattenermi dal far riemergere rassicurante la materia lì dove ora c'è il vuoto.
Posiziona per prima la sua casa, al centro.
Prende un pennarello azzurro, mi guarda.
“Dai!”
E giù il primo pedone nero.
Il pennarello azzurro indugia sui particolari che non si riescono a intagliare sulla plastica.
“Queste erano le persiane... te le ricordi? Mio padre le verniciava una volta l'anno, con quell'intonaco azzurro... quando, svegliandomi, sentivo l'odore della vernice, sapevo che era ritornata l'estate... che per un po' non sarebbe piovuto.”
Me le ricordo... mi ricordo che le hai lasciate chiuse per tanto tempo, dopo che tuo padre se n'è andato, e che ti sei scordata di verniciarle per tante e tante estati. Ma oggi non ha importanza: tu vuoi ricordare ogni cosa che c'è stata e il prima e il poi sono dettagli in mezzo alle crepe.

“Questo era lo steccato... qui c'era quella siepe di more... non le lavavamo mai, anche se tante volte sapevano di salsedine... però erano buone lo stesso...”
Erano buone, buonissime, le tue more, Caterina.
Vorrei dirti di quante volte le ho rubate la notte, quando indugiavo sul molo e ti guardavo dalla finestra, con quell'assurda pretesa che hanno gli innamorati di avere l'oggetto del loro amore sottraendo loro qualche microscopico dettaglio.
Ma neanche adesso oso dirtelo. Io non ci sono mai stato, e tu vuoi ricordare solo ciò che è stato, vuoi solo le ombre delle cose, solo le lapidi.

“E Jack ci correva a salutare.”
Già, Jack, aveva due orecchie pendule, di uno strano colore, un po' aranciato. Era il cane più ridicolo che avessi mai visto. Non so che fine abbia fatto. Mi sento di mettere un'altra ombra, solo per lui, sulla scacchiera, perché di certo non si esime dai riti di saluto, ogniqualvolta ci streghiamo mentre accarezziamo i pezzi del suo steccato azzurro.
Prende la torre e la mette laggiù, all'angolo est della città, a picco sull'oceano.

“Qui c'era il cimitero, il cimitero bianco.”
So dove vuole che metta l'ombra: accanto a una lapide bianca e solitaria sulla spiaggia, investita dalle onde e rivolto verso est. Questo vuoto c'è sempre stato, perciò lo ricordi, con una strana consistenza, velata di rabbia. Dici che ti sei specchiata sempre in quella foto, che era la più bella foto che avessi di lei, quella che ti rassomigliava di più. Ma io credo che quella foto ti piacesse perché, a dispetto della sua perpetua assenza, c'era sempre, eterna, rassicurante, volta verso l'alba, resa viva dal ritmo dell'onda, che la sfiorava col suo andirivieni, come un respiro.
Ed è così che vuoi che ti costruisca la tua nuova città: nera, eterna, rassicurante, volta verso l'alba.
Caterina mi guarda e sorride con gratitudine: sa che lo so.
Quanto è appassita la sua bellezza! Forse per non fare torto a chi è sparito nelle crepe della terra? Da tempo non si trucca più, da innumerevoli mercoledì porta i capelli raccolti in una coda d'ordinanza.

Posiziona un edificio, lassù sulla collina e, con un pennarello verde, scrive: “Elementary School”.
“Era faticosa la salita...”
Sì, era faticosa almeno quanto era liberatoria la discesa. Correvi giù per la strada non asfaltata, sempre un po' sghemba nascosta dietro la tua grossa cartella. Io raccoglievo, paziente, i pezzi, perché tu, nella foga della campanella ti dimenticavi almeno una volta su due di chiudere lo zaino. La maestra Margaret, dietro i suoi occhiali bordati di grigio, lo diceva sempre che avresti perso anche la testa, una volta o l'altra.
Posiziono, sicuro, una torre nera.
“Hai fame?”, mi sussurra.
Annuisco. So dove vuole andare: nella pasticceria a Corner Street, nascosta sotto le fronde di un salice: fanno sempre dei dolci buonissimi. Muove le dita sulla scacchiera sino a raggiungerla. Prenderemo come sempre tre muffin all'albicocca appena sfornati: ne prende tre per fingere di averne solo uno e mezzo, ma senza accorgersene ne mangia sempre almeno due e forse qualcosa di più.
Una regina nera qui ci sta a pennello.

“Oggi dice che ricorda ogni cosa.”, afferma, mentre posiziona un grosso edificio rettangolare, all'apice ovest della collina.
I suoi ricordi sono i racconti polverosi più belli delle nostre sere d'estate: lui, il pezzo secolare della nostra scacchiera, non aveva un nome. C'era sempre stato, arrivava con un carretto un po' arrugginito, pieno di libri e si metteva a raccontare: noi lo chiamavamo il cantastorie, anche se qualcuno diceva che si facesse chiamare Homer... come Omero.
Tutti lo festeggiavano quando, in primavera, tornava da altri lidi.
Negli ultimi tempi lo andavamo a trovare lassù, nel grosso edificio bianco, con la sua borsa di libri, che aveva lasciato in pegno alla vecchia biblioteca comunale.
Ricordava ormai poco e le trame delle sue storie, che conoscevamo a memoria da innumerevoli anni, intrecciandosi nelle sue falle di coscienza, erano diventate storie nuove, nebulose, surreali. Ce le raccontava con lo sguardo vuoto, sprofondato nel suo letto diafano dell'ospedale. Ma ce le raccontava, sempre e comunque perché, come diceva lui, non si può vivere senza avere una storia.
Posiziono un cavallo nero.
Prende i pezzi della strada, sul plastico, e li fa scorrere sulla scacchiera. Quei pezzi si snodano tra tutte le case bianche che non conosciamo e che la plastica, liscia come non mai, lascia bianche.

“Ti ricordi Lisa?”
Sì, me la ricordo Lisa. Era la ragazza del lungomare: col suo Ipod cantava canzoni per addormentare il suo feto, mentre lei, in netto contrasto, correva lentamente: ci teneva a mantenersi in forma.
Le avevamo chiesto se non dormisse già sempre, un feto nella pancia. Lei ci aveva risposto che voleva che imparasse da subito a distinguere il giorno dalla notte, il bianco dal nero.
Non so se posso mettere un'ombra nera anche per lui. Ma, poi, pensando a quanto s'è allenato, per ben otto mesi, a distinguere il nero dal bianco, mi convinco di sì e neanche Caterina sembra avere nulla da ridire in proposito.

Guardiamo la nostra città, bianca e nera, le cose che ci saranno, quelle che non ci saranno mai più, quelle che non hanno fatto in tempo ad esserci. Speculari s'intrecciano, come le illusioni di una Gestalt, come luci ed ombre. Ma entrambe, con una certa caparbia speranza, identica a quella che ravvedo negli occhi di Caterina, ci sono e svettano in un essere vacuo e malfermo, in attesa di plasmarsi, nella presenza o nell'assenza, al cospetto della nostra finestra sopraelevata e appannata, che proviamo a spannare.
Metto un'ombra anche per quella finestra, che tante volte, nei pomeriggi di pioggia, era stata la nostra scacchiera e su cui avevamo disegnato, con le dita ondeggianti sulla pioggia, la nostra città. Già, oggi, per la prima volta da allora, un tuono annuncia la pioggia.
Mi porge la mano. Vuole il re e la regina.
Laggiù, sull'angolo ovest, vicino alla scogliera, c'è uno spazio libero, dacché me lo posso ricordare.
Li mette lì, rigidi e fieri, uno accanto all'altro, lo sguardo verso ovest, verso il tramonto.

“So che faranno un ottimo lavoro.”, dice.
E scribacchia su uno dei fogli, gettati alla rinfusa sul pavimento:
“Dissero che i tempi erano terminati. Io, da quest'apice sommerso, dico: nontiscordardime.”

1 commento:

  1. Incredibile! Sei riuscita a rendere gli scacchi un mondo. Un mondo di luci e ombre, di immagini e realtà, di desiderio e accettazione. Ci sono immagini che porterò sempre con me, come quella del ritratto velato e l'affermazione di un ideale di bellezza che io vedo come "possibilità", dunque come qualcosa di dinamico e mai uguale a sé stesso. La città bianca, tutta da colorare con i ricordi, ma al contempo, destinata a sbiadire, come ciò che l'ha generata. La città nera come ciò che non lasciamo andare, come qualcosa che abbiamo accettato con difficoltà, come il dolore, le ferite.
    Ho amato molto l'immagine di lui che osserva lei di nascosto ed è proprio meravigliosamente vero il tuo pensiero:

    "ti guardavo dalla finestra, con quell'assurda pretesa che hanno gli innamorati di avere l'oggetto del loro amore sottraendo loro qualche microscopico dettaglio."

    Il finale è bellissimo, a me lascia malinconia. Non so se ho ben compreso, ma le ultime parole che lei scrive mi fanno pensare a un addio, con la speranza di un incontro nella città delle ombre.
    Bravissima e grazie per avermi accompagnato, ancora una volta, nel tuo mondo :)

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