martedì 16 dicembre 2014

Presepio

Per il tempo di Natale: posare la neve, sistemare gli addobbi, accendere le candele.
Illuminare gli antri spenti, rinverdire i presepi -tutte, tutte le attese-, non dimenticare, infine, la cometa, portarla al capo, lasciarla vagare -tutta di carta- sopra la testa.
E poi: mai dimenticare di scaldare la mangiatoia, sistemarvisi in posizione fetale, ricercare col viso il fiato dei grandi ancestrali animali, attendere i doni fatti di paglia, stupirsi di quanto non servano -se sei appena nato e hai freddo e ti indica da lontano appena una cometa di carta- oro, incenso e mirra.
Ma ugualmente accettarli, con quel livido peso di consapevolezza -crescerai già domani e domani, cresciuto, serviranno, purtroppo-, ma adesso ricordati, ricordati di nascere ancora e fissa il muschio alla memoria: un giorno ti si avvinghierà alle scarpe -quando sarai un poco distratto, tra radici e neve sporca- e ti addolcirà un poco i contorni del viso, che si saranno nel frattempo tesi, come corde arrugginite che non vogliono più suonare.

E osservare -per quanto è possibile essendo così tanto supini, così tanto orizzontali e privi di prospettiva- le orde dei pastori solcare la valle, faticosamente tra palme spazzate dal vento e dal ghiaccio, vederli ingiungere come un plotone nemico, mentre invece disconoscono e dimenticano marciando il tedio meschino che -sino al momento della cometa di carta- ha avvolto il loro cuore.
Sono inciampati -diranno- in un ciuffo di muschio, sembrava un miracolo in mezzo ai pietroni e, così rovinosamente cadendo, son rimasti per qualche istante con gli occhi fissi al cielo e hanno visto: hanno visto le solite stelle, il Carro e tutte le costellazioni e poi quella assurda cometa di carta, di sicuro un po’ kitch, appesa alla nera montagna.
E così per un attimo hanno avuti vuoti gli occhi, all’unisono si sono accesi e disposti nella valle come specchio stellare, hanno fatto -senza saperlo- il Carro e tutte le costellazioni e ordinati incedono nella regolare, perfetta geometria del cielo sulla terra e non i massi aguzzi, i precipizi, gli abissi scompongono quella danza silente, quel divenire fisso e a te giunge l’infinità del cielo, il mistero degli astri, la musica dei pianeti.
A te giunge -così supino-, attaccato al seno.

E senza parole si scrive Betlemme sulla geografia della tua carta e appena intinta è la penna nel calamaio di neve e la scritta è un ricamo bianco sul cielo nero.
Fioccano i pani dai panieri, sgocciola l’acqua dai frantoi, stramazzano in sacrificio le bestie con gemiti scuri, sgomitolano tessiture dai filatoi, con un cigolio che pare di un marchingegno sotteso alla terra. Tendi l’orecchio, a tratti par vento soltanto -un vento freddo dal sud al tuo nord-, ma a poco a poco si svela il frenetico lavoro di mani, la fatica delle fronti sudate che incedono -con brocche, con grigi cavalli, con variopinti equilibri di vesti e mantelli-, il tempo ora dipinto in una vaga scia di lumi.
A te queste cose si portano -a te così supino, attaccato al seno.

A te per quest’eternità appena, che ridesta però le speranze chiuse, la purezza macchiata, la corsa del primo che giunge -così sincronica a quella dell’ultimo che vuol recuperare la distanza- e si tende e si contende e si accorcia la luminosa scia e il Carro del cielo specchiato in Terra, ché Terra e Cielo sembrano ora due palmi di mani schiusi, attaccati per i polsi. 

E da quell’utero tanto improvvisato, tu ti posizioni, tu così supino, tu attaccato al seno, tu col viso proteso a cercare il fiato di ancestrali animali, tu che non lo sapevi, mentre intrecciavi in origami la cometa, che era per te.


"Ho visto che gli uomini si sorprendono della morte ma non di esser nati. Tuttavia è la nascita ad essere più sorprendente ed ammirevole."Louis-Claude de Saint-Martin

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